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Il sesto uomo

Il sesto uomo

A cura di Matteo Viotto

The Decision 2.0: da LeBron James a Kevin Durant

LeBron James nasce ad Akron, a poco più di 60 chilometri da Cleveland. Figlio dell'Ohio, madre natura con lui non si è fatta tanti riguardi e l'ha dotato di tutto: talento, carisma, sfrontatezza e fisico. In una parola: leadership. Il ragazzo cresce, si sviluppa, diventa sempre più forte, domina. La città lo ama, lo consacra Re, The King. Sarà lui l'uomo che riuscirà finalmente a portare la sfortunata Cleveland alla vittoria di un titolo sportivo che manca da quasi mezzo secolo. Ma lo sport di squadra è crudele, meschino e allo stesso tempo meraviglioso, dispensa una lezione importante: da soli, non si vince. Il roster di Cleveland non è pronto e LeBron desidera in maniera quasi spasmodica e ossessiva quell'anello. Arriva così il fatidico giorno, 8 luglio 2010, la ESPN organizza addirittura uno speciale di una sola ma fondamentale puntata. Se fosse un soap, per i tifosi dell'Ohio sarebbe un horror da incubo, mentre per qualcun altro (i Miami Heat) si rivelerà una bella storia d'amore.  È The Decision, LeBron dirà a tutto il mondo la sua prossima destinazione. Lo stesso James, dal suo saldo trono, sembra compiere l'harakiri.“I'll take my talent to South Beach”, e si scatena l'inferno. L'assolata Miami, per usare un eufemismo, ha qualcosa in più della terra natale del prescelto. In città iniziano i falò e le maglie dell'allora numero 23, agli Heat vestirà la 6, vengono messe al rogo da un'intera popolazione che si sente smarrita. È uno smacco troppo grande, la promessa non è stata mantenuta e la situazione sembra essere irreversibile, un suo possibile ritorno e il conseguente perdono non appaiono possibili. I cavalieri dell'Ohio si tramutano in haters nei confronti di colui che li ha illusi, per poi abbandonarli e mirare altri lidi, allearsi con gli Heat di Pat Riley, Dwayne Wade e Chris Bosh, forti di un quintetto capace di competere per il titolo che manca così tanto a LeBron. A SoBe tocca livelli di basket celestiali, vince due titoli ed è per MVP delle Finals in entrambi i successi. L'ultimo titolo a Miami, nel 2013, spaventa per i numeri, perché LeBron chiude la serie, portata a gara 7, con una doppia doppia di media. Si, doppia doppia di media. 25, 3 punti e 10,9 rimbalzi. Viene da un pianeta diverso dal nostro, ma questo si sapeva già. 
Nel 2014 raggiunge nuovamente la finale, ma i demoni del passato tornano a fargli visita. Gli schiaffi subiti da San Antonio fanno male, le ginocchia di Wade scricchiolano e Bosh sembra l'ombra di se stesso. Il tutto condito dalla free agency che si avvicina e vede come protagonista proprio il nativo di Akron.
È tempo di riprendere ciò che aveva abbandonato, di mantenere la promessa fatta e poi disfatta alla sua amata e odiata Cleveland. Il Re fa le valigie e torna a casa. Fiumi di tifosi si riversano sulle strade e le stesse magliette bruciate vengono ricomprate. Non cambia nulla, neanche il numero, perché tornerà a portare sulle spalle il 23. Il celebre brano I'm coming home di Skylar Grey sembra scritto appositamente per la nuova marcia trionfale, un'inno che riecheggia nell'intera città. 
A sbarrare la strada che divide LeBron dal primo anello con i Cavs ci sono i Golden State Warriors di Curry e Thompson, guidati da Steve Kerr, uno che sa bene come si vince un titolo NBA. 
Quest'anno è andata diversamente. O meglio, stava per abbattersi su di lui, ancora una volta, l'ennesimo ciclone di “perdente!” o “egoista, gioca solo per se stesso!”, ma lui e un fenomenale Irving hanno deciso di guastare la festa a Curry & co. rischiando veramente di far cadere nel dimenticatoio il record di 73-9 della regular season. Il buon vecchio Scottie Pippen, durante gli allenamenti dell'anno delle 72 vittorie dei Bulls portava una maglietta la quale recitava: “72-10 don't mean a thing, without the ring”. Profetico
Si è caricato un'intera città sulle spalle, proprio laddove porta tatuato in lettere cubitali l'altro suo soprannome: The Chosen One, il prescelto. Ora è tutto chiaro, era lui il predestinato, l'eletto per questa missione, e l'ha portata a termine. 

È di pochi giorni la notizia della scelta, decisamente la più influente nella lega dall'ultima appena narrata, di Kevin Durant. È un fulmine a ciel sereno, seguito da un roboante tuono che si è abbattuto proprio sui Thunder in cui gioca(va). Ha scelto Golden State, ha scelto il progetto di Steve Kerr. Ha scelto la squadra che quest'anno era arrivato a tanto così dal batterla, e invece, usando una frase ricorrente in questi giorni, si è coalizzato con i più forti. Perché si, quello dei Cavs di quest'anno è un'autentico miracolo sportivo da tramandare ai posteri, ma gli Warriors sono ancora i più forti. 
The Decision, atto secondo. Questa volta non viene istituito nulla dalle televisioni nazionali, Kevin spende poche righe sul portale The Player Tribune, intitolando il comunicato d'addio My next chapter. Dinamiche e protagonisti diversi, stesse reazioni e le maglie con il numero 35 a fare da protagoniste nei falò cittadini. Durant ha detto che ha parlato con Westbrook e che quest'ultimo non faceva di certo i salti di gioia, ma si è anche detto sicuro che l'ormai ex compagno ha compreso la sua decisione. Beh, dovremo farlo anche noi.
Ho letto commenti di qualsiasi genere. Tanti sostengono che le due decisioni siano diverse, perché LeBron predicava nel vuoto, in una squadra incapace di lottare per il titolo, mentre KD aveva un roster più competitivo e, insieme a Westbrook, l'aveva dimostrato neanche un mese fa, quando stava per distruggere le speranze di back to back dei guerrieri della baia di Oakland. Parere personale e del tutto opinabile: i paragoni non reggono. Si, Oklahoma era effettivamente più forte dei Cleveland del primo mandato di LeBron, ma è altrettanto vero che negli anni si è dimostrata una squadra mentalmente impreparata a vincere, debole e capace di dilapidare i vantaggi che aveva nei momenti decisivi.  

Ora, lungi da me inveire contro voi haters da scrivania, “odiatori” da divano e quant'altro. 
Lo farei, ma cerco di essere diplomatico. 

Perché LeBron James e Kevin Durant non vanno biasimati né criticati per le loro decisioni maturate negli anni? 
Per un semplice motivo, si chiama empatia. In psicologia, è la capacità di porsi in maniera immediata nello stato d'animo altrui ed è qualcosa che, a tanti dell'era digitale che stiamo vivendo, manca, profondamente. Insomma, svegliarsi la mattina, guardarsi allo specchio con la consapevolezza di essere il giocatore o uno dei giocatori più dominanti e forti della lega, ma senza aver vinto nemmeno un titolo, deve essere qualcosa di straziante. I milioni? Le sfarzose ville? Le auto di lusso? 
Si, ci sono sempre, ma atleti come LeBron James e Kevin Durant vogliono una sola cosa: vincere
Machiavellici? Può darsi. Il fine giustificato con qualsiasi mezzo, incluso quello di ferire chi ti idolatra, è necessario per soddisfare la fame di gloria e la sete di vittoria. 
Non solo, un tale comportamento ogni tanto deve essere attuato, per far dimenticare a tutti l'etichetta di “forte ma perdente” e, al momento giusto, sbatterla in faccia a chi piaceva tanto, per non finire la carriera come un Allen Iverson, amato, coccolato, servito e riverito dalla città a cui è sempre rimasto fedele e non ha mai tradito, senza vincere assolutamente niente.  

In conclusione, sempre cercando di immedesimarsi in questi supereroi contemporanei, si dovrebbe cercare di comprendere i loro limiti e, per quanto appaia impossibile ne abbiano, sono umani anche loro. Non sono soltanto plurimilionari fenomeni in una lega di superstar, sono anche semplici ragazzi che provano a realizzare i propri sogni, alzare il Larry O'Brien Trophy, e fumarsi il sigaro della vittoria, a prescindere dalle scelte, dall'amore per la maglia e da qualsiasi altra cosa. 
Voi, al loro posto, dubito non fareste lo stesso. 
Non si vince da soli, né nello sport né tantomeno nella vita. 
 

The Decision 2.0: da LeBron James a Kevin Durant

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