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Cronaca

Ca' Foscari, l’Hiv in carcere: un progetto svela la ricetta per combatterlo

Presentati venerdì i risultati “Free to live well with Hiv in Prison” condotto da SIMSPe, NPS Italia Onlus, Ca’ Foscari in collaborazione con ministero di Salute e Giustizia

Scarsa igiene, punture di zanzare, resistenza da parte del virus ai disinfettanti sono i timori di contrarre l’HIV. Sottostima dei rischi legati ad eventuali risse tra detenuti e allo scambio di spazzolini e rasoi. Inspiegabile timore della saliva, che viene ancora considerata veicolo del virus da quattro persone su dieci, e dell’urina, anch’essa temuta come possibile fonte di contagio da quasi una persona su tre. Sono solo alcuni dei dati che emergono dalla ricerca condotta su un migliaio di persone in 10 carceri italiane nell’ambito del progetto "Free to live well with HIV in Prison", che oltre a contrastare lo stigma e a migliorare la prevenzione dell’infezione nelle strutture carcerarie punta a favorire un mutamento nella gestione dell’infezione e a definire modelli di buone pratiche che possano essere adottati anche in altre strutture.

La ricerca, che viene presentata venerdì in prima nazionale dai promotori del progetto, SIMPSE, NPS Italia e Università Ca’ Foscari Venezia, offre per la prima volta una fotografia della conoscenza sull’HIV nelle carceri italiane. E svela le false paure e i rischi non riconosciuti che intralciano l’efficacia della prevenzione, tracciando le linee per prevenire e combattere l’infezione.
 
Innovativa la modalità di approccio utilizzata che ha preso il via dalla raccolta dei dati che rivelano il livello di conoscenza sull’infezione da HIV nelle carceri, per erogare una formazione ad hoc e promuovere la prevenzione anche con l’ausilio dei test. Va inoltre segnalato che anche se solo un detenuto su cinque considera giusto che non si conosca l’eventuale sieropositività di un compagno di cella, nel complesso sono emersi segnali positivi a riprova di come gradualmente lo stigma verso la malattia si stia sciogliendo.

La ricerca mette in luce anche il valore dell’educazione tra pari per fare una corretta informazione sia nei confronti della popolazione carceraria sia della polizia penitenziaria. In questo senso, tra i molti aspetti considerati, l’attenzione si è concentrata sulla disponibilità degli stessi detenuti a diventare “educatori” nei confronti degli altri. Complessivamente il 47,7 per cento la considera una buona idea, dato che tra compagni ci si ascolta più facilmente e ci si capisce di più. Tra i dati emersi, va sottolineato anche un dato preoccupante: la limitata fiducia da parte delle persone nella terapia per l’infezione da HIV. Solo il 68% dei detenuti la assumerebbe se si scoprisse sieropositivo.
 
"Il progetto Free to live well with HIV in prison è stato condotto con entusiasmo e competenza dalla nostra Società Scientifica che ha inteso sperimentare una cooperazione multiattoriale con partner eterogenei per competenze e mission al fine di integrare i rispettivi know how in iniziative innovative e con una forte ricaduta sistemica. Le singole specificità - dichiara Luciano Lucania, presidente di SIMSPe - hanno rappresentato un valore aggiunto unico per il progetto, i cui risultati sono certamente destinati a generare degli effetti sostenibili e duraturi".

"Molti soggetti hanno detenzioni di breve durata - precisa Serena Dell'Isola, coordinatrice scientifica del progetto - e la possibilità di fornire e somministrare i test, il trattamento farmaceutico e un collegamento ai servizi di assistenza consente di migliorare la salute dell’intera società, riducendo il rischio di trasmissione e i costi legati alle comorbilità collegate a tali infezioni".
 
"Ca’ Foscari ha partecipato al progetto per dare continuità a un’attività di ricerca sull’HIV che ha già prodotto in questi anni dati importanti sulla conoscenza dell’HIV/AIDS e sulla esistenza di pregiudizi tra la popolazione generale, gli adolescenti, gli immigrati e la comunità Lgbt, affermano Fabio Perocco e Alessandro Battistella docenti dell’Università Ca’ Foscari Venezia. Oggi i nuovi dati, riferiti a detenuti adulti e minorenni, e su chi lavora in carcere si rivelano utili per definire interventi di formazione e informazione che la ricerca ha dimostrato essere necessari".

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