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Cronaca Mestre Centro

Vittime della criminalità organizzata: piuttosto della vergogna, il silenzio

Operazioni antimafia e arresti in Veneto. Usura e minacce a imprenditori del posto che non collaborano, secondo il procuratore Cherchi. Naccarato: «Questione di mentalità». Orlando: «Sottovalutato il fenomeno»

Oltre una trentina di arresti a primavera 2019, e un'altra cinquantina alcune settimane prima. Tutti in Veneto. In manette finiscono titolari di imprese, edili soprattutto, venete, padovane nella maggior parte dei casi, ma anche della Riviera del Brenta e altre province, coinvolti nella criminalità organizzata. Fanno capo a gruppi mafiosi, come la cosca dei Grande Aracri di Cutro (Calabria), individuata dalle indagini della procura distrettuale antimafia di Venezia, che ha presentato mercoledì l'epilogo dell'operazione Camaleonte, di inizio anno. Anche Alessandro Naccarato (Pd) e il vicesegretario del Partito Democratico, Andrea Orlando, ex ministro della Giustizia, hanno commentato i fatti alla Notte Rossa di giovedì pomeriggio, a Mestre. 

I metodi

A entrare in azione, magari perché chiamati in causa proprio da imprenditori in difficoltà del posto, sono persone che praticano usura, che prestano soldi con interessi da capogiro, criminali che finiscono per estorcere denaro, appalti, beni, proprietà e spesso a rilevare, con minacce e metodi mafiosi, le aziende stesse, dopo essersi infiltrati nel tessuto locale e aver trovato spazio per riciclare fiumi di denaro, intascato dai traffici della droga. 

L'omertà

Il termine usato dal procuratore Bruno Cherchi, a capo dell'operazione, è omertà. «Non siamo riusciti a trovare la collaborazione delle vittime, neppure quando le indagini hanno fatto emergere le responsabilità degli arrestati», dice, che grazie alle testimonianze avrebbero potuto essere accusati di ulteriori capi di imputazione. «Siamo stati costretti - conclude Cherchi - a fare perquisizioni nei confronti delle parti offese, per acquisire i documenti di prova». Ma parlare di omertà, nel senso legato tradizionalmente ai contesti storici della mafia, non è appropriato, dice Orlando. «È silenzio. La comunità che non vuole mettere i panni sporchi in piazza. Raccontare queste cose, si pensa, non fa che screditare il territorio. Un atteggiamento che crea esattamente il contesto di cui la malavita ha bisogno. Un ambiente che tiene tutto sotto traccia, che tiene per sè, che fa passare inosservato. Il problema non è la mafia. Ma la sottovalutazione della mafia. I magistrati stessi hanno evitato di andarci pesanti col 416 bis (introdotto dalla legge 13 settembre 1982 per far fronte ai delitti di mafia), dicendo che non c'era un pregresso tanto importante da dovervi ricorrere. Il modo di mimetizzarsi di queste imprese, passate sotto alla criminalità, si è affinato. Sono attività "normali". Sono ristoranti che restano vuoti, ma devono essere aperti per dare sfogo a un mare di denaro sporco, non certo per fare profitti».

La mentalità

«Si svela una realtà oltre il livello dell'infiltrazione, che trova radicamento tra imprenditori e i professionisti del Veneto - afferma Naccarato -. C'è stato un cambio di strategia nelle prefetture, sono sorti nuclei specifici che controllano i cantieri nelle province. Ma c'è il problema del coinvolgimento delle vittime, che all'inizio "gestiscono" l'evasione fiscale, poi si approcciano alla criminalità. La possibilità di denunciare c'è, come qualla di attingere a fondi specifici dedicati agli impreditori minacciati, basta denunciare e collaborare. Quei fondi restano però inutilizzati. Per una questione di mentalità. Piuttosto che fare brutta figura le vittime pensano di poter risolvere in fretta i loro problemi entrando in questi giri, da cui pensano di uscire facilmente, ma non è così».

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