"Le diabelli come non le avete mai sentite" al Toniolo
Giovedì 12 marzo al teatro Toniolo "Le diabelli come non le avete mai sentite". Lo spirito dell'improvvisazione nelle Variazioni Diabelli op.120 di L. Van Beethoven. La parola giusta è veraenderungen. Una parola un po’ ostica e ingrata da tradurre e quindi da comprendere. Però ci si puo’ provare: si potrebbe azzardare ad esempio “trasformazioni” oppure, volendo, “metamorfosi”. Tutto, comunque, tranne che “variazioni”. Questo proprio no.
Non è un dettaglio e nemmeno una pedanteria filologica. Perché questa è la parola che Beethoven usa per dare un nome (e lui non fa mai niente a caso…) a quelle che noi chiamiamo con un bel po’ di disinvoltura Variazioni Diabelli. Variazioni, appunto, l’unica parola sbagliata. E lo facciamo, per lo meno in Italia, da quasi due secoli.
E allora chi ha ragione: noi o Beethoven? Nove su dieci lui: di solito ha quasi sempre ragione lui. Perché in effetti a ben leggere, eseguire, ascoltare quei trentatre pezzi che seguono il valzerino (che poi forse non è nemmeno un valzerino…) composto da Anton Diabelli non viene quasi mai in mente l’idea di “variazione”. Non per lo meno come era stata concepita dalla tradizione illustre del “tema con variazioni” fino a quel momento. Alfred Brendel – che di variazioni si intende assai – dice ad esempio che il tema di partenza viene continuamente “commentato, criticato, perfezionato, deriso, portato ad absurdum, disdegnato, incantato, trasfigurato, lamentato, compianto, calpestato ed infine schernito”. Il che significa, per l’appunto, trasformato. Non certo variato…
Del resto la tecnica che adotta Beethoven, “trasformazione dopo trasformazione”, per costruire l’edificio dell’op. 120 è la spia più persuasiva, la prova regina, del suo carattere labirinticamente metamorfico. Una tecnica compositiva che fa confliggere ad ogni passo i due assi portanti della scrittura: la struttura e l’invenzione. Per un verso, infatti, il ciclo sembra reggersi su una serie di proporzioni nitidamente matematiche. Pietro Rattalino l’ha dimostrato a sufficienza: comunque le si rigiri, le si suddivida e le si raggruppi c’è sempre un algoritmo cristallino che sorveglia le relazioni tra le trentatre (33!!!) veraenderungen: la sezione aurea. Ma questa è solo mezza verità: l’altra metà è assai meno visibile, calcolabile, certificabile.
Non si comprende fino in fondo la natura delle “metamorfosi Diabelli”, infatti, se non ci si mette all’ascolto del soffio che le percorre da cima a fondo, della ratio che continuamente le ispira e le costruisce: lo spirito, cioè, della improvvisazione. Una estemporaneità sistematica e profonda che si cristallizza, inevitabilmente, nel segno scritto. Ma che nasce in realtà, direttamente, fisicamente, sulla superficie del pianoforte, nell’hic et nunc della scrittura: una sorta di “composizione istantanea” della quale la rete matematica è solo una cornice di salvataggio, una rete di protezione. Non solo: proprio dal conflitto tra il rigore matematico della struttura e la fluidità mercuriale della improvvisazione sorge, in definitiva, il tratto inconfondibile delle Diabelli, ossia il loro radicale e sistematico “umorismo”. L’adozione spontanea, cioè, di un “tempo comico” (nella accezione che prima Nietzsche e poi Bergson hanno dato a questa espressione) che sottrae la serie delle trasformazioni alla linearità del tempo cronologico per immergerle in un flusso temporale in cui il prima e il dopo si sintetizzano in una sorta di costante “presente”. Il tempo in cui si coniuga, non a caso, il verbo improvvisare.