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Costretta ad abortire in vista della chemio: "Non era più necessaria"

Una donna ha chiesto un maxi risarcimento all'Ulss 12 dopo che nel 2011, secondo il suo legale, venne indotta a interrompere la gravidanza

Per sottoporsi alle cure per un sospetto linfoma viene costretta ad abortire. Poi, però, dalla diagnosi si scopre che non c'era alcuna necessità di chemioterapia. E dunque nemmeno di perdere il feto che aveva in grembo. Come riporta la Nuova Venezia, una donna residente nel sandonatese ha chiesto tramite il suo legale 500mila euro di risarcimento all'Ulss 12 per "danno da perdita del frutto del concepimento". L'avvocato è convinto infatti che quanto accaduto abbia leso il diritto alla genitorialità garantito dalla Costituzione.

La vicenda risale al gennaio 2011, quando la donna finisce all'ospedale della città del Piave per febbre, tosse e dolori alla schiena. I primi accertamenti portano a riscontrare un possibile linfoma, mentre la paziente si trova alla tredicesima settimana di gravidanza. Di conseguenza la decisione di trasferire la donna all'ospedale Dell'Angelo di Mestre, dove si trova il reparto di Ematologia di riferimento per la provincia. A questo punto iniziano le contestazioni dell'avvocato, secondo cui i medici, a fronte del linfoma sospetto, avrebbero ottenuto il consenso per procedere all'interruzione di gravidanza dopo aver prospettato alla paziente la prospettiva di essere sottoposta a un ciclo di chemioterapia, che avrebbe provocato danni irreversibili al feto. Secondo il legale la decisione sarebbe stata presa perché "costretti" dagli eventi, nonostante il desiderio fosse tutt'altro.

La biopsia che poi avrebbe "ufficializzato" che non ci sarebbe stata alcuna necessità di chemio, però, sarebbe stata portata a termine dopo l'interruzione di gravidanza. A giochi fatti. Secondo i coniugi ci sarebbe stato tutto il tempo di aspettare i risultati della biopsia prima di procedere. Di qui la decisione di chiedere il risarcimento.

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