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Cronaca

L'emergenza e i capri espiatori

Qualche ragionamento sulla comunicazione ai tempi del coronavirus, stimolato da un incontro tra le calli di Venezia

Ieri sera ero con un'amica a Venezia. Avevamo preso un aperitivo, appena fuori da piazza San Marco, e stavamo camminando per una calle quando lei, dando un'occhiata attraverso la porta a vetri di un albergo, ha visto un suo conoscente che lavora lì come receptionist. Così siamo entrati a salutarlo. Lui, un ragazzo sulla trentina, ci ha subito detto che in questi giorni l'hotel è praticamente vuoto per la mancanza di turisti. Dopo un paio di battute, la mia amica gli ha riferito che io sono un giornalista e a quel punto lui (ridacchiando) ha iniziato ad attaccarmi. Cose del tipo: «Colpa dei giornalisti se siamo messi così», «vi odiano tutti», oppure «non ti conviene dirlo tanto in giro, è come per gli ebrei ai tempi della seconda guerra mondiale, non era il caso di dirlo». Ho letto altre amenità simili tra i commenti a qualcuno dei nostri post Facebook, negli ultimi giorni. Utenti che insultano, che incolpano i giornalisti di essere i responsabili del panico, che invocano «i tempi della censura».

Sono fenomeni abbastanza conosciuti, e anche studiati. Non è mia intenzione fare del vittimismo, anche perché quel receptionist non rappresenta una categoria (altri commercianti con cui abbiamo parlato in questi giorni hanno raccontato le loro difficili situazioni, senza sentire il bisogno di attaccare qualcuno in particolare), mentre gli utenti Facebook che dispensano odio restano una piccola minoranza rispetto al totale di coloro che navigano in internet, e anche rispetto a quelli che leggono i nostri contenuti. Insomma, fino a prova contraria credo che la maggioranza delle persone, nel web come nel mondo reale, sia ragionevole. Però approfitto di questo episodio per dire un paio di cose sull'informazione, sul virus e sui capri espiatori.

Partendo dalla diffusione del coronavirus. Chi affronta questo tema, dal punto di vista comunicativo (non solo il giornalismo ma anche la politica, la comunità scientifica, le attività economiche, tutti), si trova costantemente in bilico tra il rischio di fare "allarmismo" e quello di sminuire il pericolo. È una collocazione instabile, per cui si finisce sempre da una parte o dall'altra (chiedetelo al governatore Zaia): cercare di mostrarsi rassicuranti significa attirarsi le critiche di chi dice che il problema è serio e grave, ed è un atteggiamento che cozza con le misure straordinarie previste dai decreti governativi emanati in questi giorni, ma anche con l'evidenza dei numeri: sono sempre di più le persone ricoverate, tanto che, per dire, la Regione Veneto ha messo a disposizione oltre 500 posti letto aggiuntivi, tra i reparti di terapia intensiva, semiintensiva e malattie infettive. Dall'altra parte, mostrare questi dati significa risultare antipatici a chi vuole e deve «andare avanti», vivendo normalmente, ed è in qualche modo penalizzato dalla diffusione delle notizie, più che da quella del virus. La crisi sanitaria sta causando una grande crisi economica, principalmente nei settori del turismo, della cultura e degli eventi. Ed è un problema mondiale, perché in tutto il mondo la gente smette di spostarsi, di radunarsi, di andare in vacanza. A Venezia è più evidente che altrove, perché l'economia veneziana si regge in buona parte sul turismo. E questo sta portando a situazioni molto difficili per tutti coloro che di turismo vivono.

Arriviamo quindi all'attribuzione delle colpe, anche questo un meccanismo arcinoto che ha a che fare con la necessità di trovare delle risposte nei momenti di difficoltà, in particolare quando nemmeno la scienza, e la conoscenza, sembrano venirci in aiuto. A costo di semplificare e additare, appunto, il capro espiatorio di turno. Cito Maurizio Ferrera, che ha scritto così sul Corriere, qualche giorno fa: «L’incertezza impedisce l’imputazione di responsabilità. Di chi è la colpa per ciò che sta accadendo? Perché proprio a me? L’epidemia sta provocando diseguaglianze e sofferenze del tutto casuali fra persone e territori, e dunque percepite come immeritate. È la sindrome di Giobbe: si sfalda l’illusione neo-moderna di aver finalmente compreso i segreti della realtà e di poterla controllare. La natura torna ad essere percepita come imprevedibile e cieca. L’incertezza incide anche a livello collettivo. Per ora almeno, la scienza sembra incapace di indicarci la strada "giusta". La socialità diventa una fonte di pericolo. Persino la famiglia può diventare uno scudo bucato: ciascuno resta solo con il proprio corpo. È una fase, certo, le cose miglioreranno, impareremo a conoscere il virus, recupereremo le nostre capacità di calcolo quotidiano. Non è una catastrofe, fa bene chi esorta a non farsi prendere dal panico. Ma il momento è difficile, inutile negarlo». Aggiungo che tutti noi, compresi i "professionisti della comunicazione", siamo chiamati ad affrontare questo momento difficile cercando di mantenere la lucidità, ognuno nel proprio campo e tutti in qualità di esseri umani.

La scena avvenuta alla reception dell'albergo si è conclusa in un modo che, credo, rappresenta bene le differenze tra un'interazione reale e uno scambio di commenti sul web: il ragazzo, che forse inizialmente pensava che stessimo scherzando (cioè che io non fossi seriamente un giornalista), pian piano ha ammorbidito il suo atteggiamento, tanto che nel giro di qualche minuto mi ha chiesto scusa, più volte. Che è come dire che quando ti trovi a tu per tu con una persona in carne ed ossa sei portato a comportarti di conseguenza, riconoscendole una quota basilare di dignità e di rispetto, come si fa tra esseri civili. Chi si sfoga senza controllo su Facebook, evidentemente, perde di vista questo concetto.

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