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Cronaca

«Il lavoro nero nelle calzature della Riviera minaccia il distretto»: la denuncia degli artigiani

Chinellato e Barison: «Puntare sulla certificazione. Il marchio ideato anni fa non è mai decollato. Serve un'adesione massiccia delle aziende»

«Lavoro irregolare per risparmiare sul costo della manodopera». Gli artigiani non si stancano di denunciare il fenomeno dell'occupazione in nero nel comparto della calzatura della Riviera del Brenta, che conta complessivamente 550 imprese per quasi 10 mila dipendenti in zona.

Confartigianato e Cna del Miranese intervengono sottolineando una situazione che non si arresta, anzi, aumenta e preoccupa. Il distretto rischia di scomparire in assenza di regolarità, pregiudicando gli attori e le comunità che ne fanno parte. Non esiste, continuano a spiegare le confederazioni e le categorie, una realtà produttiva di nicchia o di lusso che non sia contrassegnata dal rigoroso rispetto delle norme sull'utilizzo dei prodotti, sulla qualità dei componenti e sul rigoroso rispetto delle disposizioni nell'utilizzo della forza lavoro, nei vari momenti del processo di produzione. È quello che dà pregio ai distretti. Aggirare le regole sembra una mossa "furba" oggi, e domani si traduce in un danno economico e di immagine enorme, pena scomparsa delle produzioni artigianali. Chi opera nella legalità conosce la forza del lavoro artigianale, che si contraddistingue e si difende anche nei momenti difficili grazie alla propria eccellenza, ma che perde credibilità quando nell'ambito si pensa di aggirare le norme.

La presenza sul territorio del distretto di aziende (spesso piccoli e medi laboratori) che forniscono prodotti o lavorazioni competitive grazie ad un abbassamento del costo del lavoro impoverisce la filiera, spiegano Giorgio Chinellato segretario dell'associazione Artigiani e Michele Barison di Cna del Miranese. La richiesta delle due associazioni è quella di puntare al più presto su un marchio doc della scarpa della Riviera del Brenta a cui le imprese della zona dovrebbero aderire però massicciamente.

«Anche nell'area del distretto della calzatura della Riviera del Brenta – spiegano Chinellato e Barison - la situazione va monitorata con estrema attenzione. Siamo di fronte infatti alla presenza di tacchifici e suolifici in cui tanti lavorano in maniera non regolarizzata, e dove è massiccia anche la presenza di quelli in cui le regole sulla sicurezza dei luoghi di lavoro spesso non sono rispettate». In questo modo riescono ad abbassare del 30 % il costo della manodopera. «Se si tiene presente, sottolineano, che il costo della manodopera rappresenta il 60-70% del costo nella realizzazione delle calzature, si può capire quanto danno fanno alle aziende che invece lavorano rispettando pienamente le regole e non impiegano manodopera non regolarizzata o sottopagata o in ambienti non a norma. Queste sono aziende che aprono e chiudono nel giro di pochi anni, iscritte quasi sempre come ditte di nome collettivo (snc) o società individuali, non hanno cioè bisogno come le srl di presentare un bilancio. E poi chiudono prima che le autorità preposte con delle ispezioni ne certifichino le irregolarità. Dopo aver chiuso infatti riaprono subito dopo con un altro nome. Da alcune stime fatte queste aziende si aggirano sulla cinquantina in tutto il comprensorio della Riviera e sono gestite per lo più da cittadini stranieri. «Per uscire da questa situazione in un periodo in cui anche la crisi legata alla pandemia colpisce forte il settore – concludono Chinellato e Barison – è importante puntare sulla certificazione della calzatura della Riviera del Brenta al tavolo della Consulta territoriale ripartito lo scorso gennaio. È un marchio ideato anni fa e mai decollato. Per farlo serve stavolta un'adesione massiccia delle aziende del comparto».

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