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Cronaca Dolo

Il "supermercato" delle fatture false: si va a processo per 133 persone, il "capo" a Dolo

Un anno e mezzo di indagini della guardia di finanza: scoperto un "supermarket" dell'evasione, il gruppo creava soluzioni ad hoc per società che intendevano eludere il Fisco

Sono 133 le persone per cui è partita la notifica dell'avviso di conclusione delle indagini relative all'inchiesta "Tailor-Made". Per tutti loro sarà richiesto il rinvio a giudizio. Fanno parte, secondo gli investigatori, di una vasta associazione per delinquere a carattere transnazionale finalizzata al riciclaggio, all'autoriciclaggio, all'omessa dichiarazione dei redditi e all'emissione di fatture false collegate ad operazioni inesistenti. Lo riporta Il Gazzettino. I blitz della guardia di finanza risalgono al dicembre 2015, con 150 perquisizioni in 8 regioni. Erano stati sequestrati beni per 35 milioni di euro, scoperto un riciclaggio di denaro di 8,5 milioni, un volume d'affari totale di 150, un'evasione di imposte dirette e indirette per circa 40 milioni. Il culmine di un'operazione condotta anche dalla tenenza di Mirano.

Le persone coinvolte

La base operativa della presunta organizzazione criminale si trovava lungo la riviera del Brenta, tra Padova e Venezia. Fulcro un ufficio nel capoluogo euganeo. A Dolo viveva una delle due "menti" del gruppo, S.L., (detto "Toni), 66 anni, domiciliato in una prestigiosa villa veneta. L'altro è padovano, M.C., 55 anni. Un'altra villa è stata requisita a Vigonovo, dove viveva un altro membro dell'organizzazione, C.Z., 54 anni, detto "Sandro". Poi ci sono A.N., 53 anni, di Mira, C.M., 57 anni, padovano, ed E.P., 32enne di Noventa, incaricati di predisporre la documentazione contabile, e le segretarie addette ai viaggi all'estero M.S., 40 anni, di Abano, e L.B., 31 anni, di Sant'Angelo di Piove, assieme a M.F., 37 anni, di Fiesso d'Artico. Processo anche per i legali rappresentanti delle società, spesso semplici prestanome o nullafacenti, che la banda utilizzava per le frodi fiscali. Molti di questi sono di Vigonovo, uno di Noale.

Almeno 30 società fasulle

La banda organizzava finti viaggi di merce in mezza Europa: i camion effettivamente partivano e raggiungevano le aziende (cartiere) di destinazione. Ma viaggiavano vuoti. I prodotti rimanevano in Italia. Il viaggio veniva documentato con foto e bolle, in modo da ingannare eventuali controlli. Dietro di loro un sistema appositamente creato per cucire su misura le truffe, andando in aiuto di quelle società che avevano necessità di riciclare denaro nero. L'perazione, denominata “Tailor-made” (“su misura”) ha consentito di portare alla luce un vero e proprio "supermarket della fattura falsa". Tutto ha avuto inizio con le dichiarazioni di una cittadina extracomunitaria, “assunta” dal sodalizio per intestarsi alcune società fittizie e conti correnti all’estero: da quel momento è partita un'indagine durata un anno e mezzo che ha svelato l’esistenza di almeno 30 società fasulle costruite appositamente per coprire acquisti in nero attraverso l’emissione di fatture per operazioni inesistenti: le compravendite fraudolente erano poste in essere da aziende di diversi settori, dal tessile all’acciaio, dal materiale plastico alla cartotecnica.

Contanti in nero dall'estero

Nella maggioranza dei casi l’organizzazione criminale, ricevuto l’incarico dal cliente, si occupava del trasporto della merce, con propri mezzi, dal fornitore direttamente all’impresa acquirente. Al tempo stesso i beni, acquistati in nero, venivano fatti cartolarmente transitare attraverso una o più "missing trader", società fittizie sulle quali caricare i debiti tributari per consentire alla società-cliente di giustificare contabilmente l’acquisto della merce, con una fattura falsa, e di abbattere il reddito imponibile. L’impresa-cliente dell’associazione, ricevuti i beni formalmente forniti dalla società cartiera, li rivendeva in nero. Contemporaneamente, per non lasciare traccia nella contabilità del magazzino, li vendeva formalmente ad un’altra scatola vuota con sede all’estero: in questo modo si volevano impedire gli accertamenti dell’amministrazione finanziaria italiana. Infine dai conti correnti esteri intestati alle società fittizie (dagli stessi indagati definite "società pattumiera"), alcuni "spalloni" provvedevano a far rientrare in Italia, rigorosamente in contanti, sia gli importi da consegnare al cliente sia la provvigione di spettanza dell’organizzazione, pari al 10% dell’Iva evasa. Il più delle volte i viaggi venivano organizzati attraverso automobili munite di doppio fondo, dopodiché il tutto veniva scaricato una volta a destinazione. Nelle tasche di imprenditori e aziende che in questo modo avevano ottenuto liquidità lontana dai radar della Finanza.

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