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"White Noise" apre la Mostra del Cinema di Venezia: un film "ibrido" che convince solo a metà

Il film di Noah Baumbach racconta i tentativi di una famiglia americana contemporanea di affrontare i banali conflitti della vita quotidiana, confrontandosi con i misteri universali dell’amore, della morte e con la possibilità di essere felici in un mondo incerto

Tornano ad accendersi i riflettori sulla Mostra del Cinema di Venezia che, fino al 10 settembre, animerà le giornate lidensi. Ad inaugurare la settantanovesima edizione è White Noise, l’ultimo lungometraggio dell’acclamato regista Noah Baumbach. Quello dell’autore statunitense è un atteso ritorno: nel 2019, infatti, il suo Storia di un matrimonio (Marriage Story) aveva conquistato il pubblico e la critica della kermesse cinematografica, che ne aveva consacrato definitivamente la caratura registica. 

Esilarante e terrificante, lirico e assurdo, semplice e apocalittico allo stesso tempo, White Noise racconta i tentativi di una famiglia americana contemporanea di affrontare i banali conflitti della vita quotidiana, confrontandosi con i misteri universali dell’amore, della morte e con la possibilità di essere felici in un mondo incerto. 

Come nelle sue precedenti produzioni, Baumbach prosegue la sua personale indagine del nucleo familiare ma, se in Marriage Story la narrazione partiva da una famiglia divisa che alla fine riusciva – nonostante le numerose difficoltà – a risanare le proprie fratture, in White Noise l’apparente serenità di un matrimonio medio-borghese crolla di fronte alle confidenze non fatte, ai tradimenti nascosti, alla strenua negazione della sofferenza e alle catastrofi esterne.

È difficile definire White Noise entro un genere specifico: a tratti commedia a tratti drammatico, con incursioni persino nell’horror e nel disaster movie. È un’opera ibrida e contraddittoria, come contraddittori sono i personaggi che mette in scena (a partire dai coniugi Gladney, interpretati dai sempre convincenti Adam Driver e Greta Gerwig). Proprio questa identità frammentata rappresenta però la principale criticità del film che, sebbene diretto e montato con maestria, rischia spesso di perdersi nell’ambizione di voler raccontare troppo, riuscendo però – a conti fatti – ad approfondire ben poco degli innumerevoli temi trattati (tra i vari, solo per citarne alcuni: la morte, il capitalismo, il progresso tecnologico, i media, il mondo accademico).

Durante la conferenza stampa di presentazione del film, Baumbach ha affermato di aver riflettuto a lungo sulla difficoltà della società contemporanea ad assorbire e elaborare le informazioni, visto il sovraccarico sensoriale in cui ognuno è immerso quotidianamente. Forse l’intento del regista era proprio quello di restituire allo spettatore il senso di smarrimento provato dai protagonisti di fronte agli avvenimenti esterni che si susseguono senza tregua, spesso – proprio come succede nella vita vera – con estrema aleatorietà. I personaggi di White Noise, posti di fronte all’ineluttabilità del destino, possono solo accettare il fatto di non avere alcun controllo sugli eventi. Un’accettazione quasi catartica che avviene soltanto alla fine, con amarezza, dopo aver cercato invano di negare la propria impotenza. Ecco allora che quel ‘rumore bianco’ – che forse non a caso richiama quel difetto del ragionamento teorizzato dal premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman – pervade tutto il film e diventa il vero fil rouge che unisce scene che sembrano slegate. Una scelta narrativa originale ma talvolta troppo confusionaria e poco efficace sullo schermo. 

Tratto dall’omonimo romanzo di Don DeLillo, White Noise è di certo il film più ambizioso realizzato da Baumbach che necessita di qualche visione in più per poter essere apprezzato come, probabilmente, meriterebbe davvero. Al termine della proiezione lascia nello spettatore sentimenti contrastanti ma non convince appieno. Quello che, invece, convince davvero è un rapporto tra suono e immagine realizzato con estrema cura, che regala qualche momento di altissima qualità. Da riguardare. 
 

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