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Giovedì, 28 Marzo 2024
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Omicidio Mennella, «non gelosia cieca, ma punitiva»: il pm ricorre in Cassazione

L'ex marito di Mariarca era stato condannato a 20 anni di carcere. Il pm Incardona chiede l'annullamento della sentenza di primo grado

Non gelosia cieca e ordinaria ma vendetta: una diversa interpretazione che penalmente comporta una differenza enorme, dieci anni di carcere in più. È su queste basi che il pm della procura di Venezia Raffaele Incardona, titolare del procedimento per il femminicidio di Maria Archetta Mennella, ha trovato il modo di impugnare la sentenza di primo grado con cui l'omicida, il pizzaiolo di Torre del Greco ed ex marito della vittima Antonio Ascione, è stato condannato dal Tribunale lagunare a vent’anni: non in Corte d’Appello, facoltà che gli è prelusa avendo scelto l’imputato il rito abbreviato, ma direttamente in Cassazione.

La rabbia dei familiari

La sentenza, pronunciata il 4 ottobre 2018, è stata accolta con amarezza e rabbia dai familiari di Mariarca, assistiti dall’avv. Alberto Berardi in collaborazione con Studio 3A-Valore S.p.A. Vent’anni per un crimine così efferato sono parsi infatti del tutto inadeguati, non solo ai congiunti della vittima ma anche all’opinione pubblica. Il legale di parte civile infatti l’ha appellata ma solo ai fini civili non essendogli dato di ricorrere in sede penale, dove invece ha potuto presentare ricorso il difensore di Ascione. Con ulteriore sdegno da parte della famiglia Mennella che teme altri sconti di pena. La difesa, tra le altre cose, pretenderebbe il riconoscimento delle attenuanti generiche e l’esclusione dell’aggravante.

Futili motivi

A queste due impugnazioni si aggiunge ora quella del pubblico ministero, che potrebbe riaprire il caso. Incardona nel suo ricorso alla Suprema Corte punta su una delle due aggravanti, i futili motivi (l’altra è la premeditazione), che non sono state invece riconosciute dal giudice, Massimo Vicinanza, determinando così la riduzione di pena dall’ergastolo a trent’anni, divenuti poi venti con l’abbreviato. Rito che peraltro oggi, con la nuova legge non si può più richiedere per l’omicidio aggravato.

La giurisprudenza della Cassazione prevede che quando la condotta è originata da spirito punitivo verso la persona offesa ricorra il motivo futile idoneo a integrare la circostanza aggravante. Per il giudice, invece, Ascione avrebbe agito per ragioni sì di gelosia ma determinate dal fatto che la moglie aveva intrapreso una nuova relazione e, quindi, collegate solo a un desiderio (infranto) di vita comune. Quindi gelosia priva di intenti punitivi, una spinta dell’animo capace di indurre a compiere azioni illogiche per la quale non ricorrerebbero i presupposti per l’applicazione della aggravante dei futili motivi.

«Considerava la vittima un oggetto di sua proprietà»

Una lettura che il sostituto procuratore non condivide affatto, anche alla luce «dei plurimi momenti argomentativi della decisione (nelle motivazioni della sentenza, ndr) nei quali il giudice, ripercorrendo le modalità dell'aggressione e i comportamenti del reo precedenti e successivi all’omicidio, dà atto di modalità e circostanze dell'azione che possono riferirsi solo a un soggetto che si sia sentito padrone della vittima e la abbia reificata». Il pm ricorda anche che il killer ha agito dopo aver scoperto i messaggi sullo smartphone che la moglie si era scambiata con il nuovo partner e dopo aver preso atto che quel legame che voleva ripristinare si era ormai definitivamente sciolto, anche questo indizio di gelosia punitiva. «È fuori di dubbio che queste condotte - spiega Incardona - appartengano ad un soggetto che ha considerato la vittima un oggetto di sua proprietà e che si è perciò sentito in diritto di controllarne ossessivamente la vita e di punirla, uccidendola, per la sua insubordinazione».

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