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"È stata la mano di Dio" è una poesia visiva: Paolo Sorrentino convince con il suo film più personale

Sullo sfondo di una bellissima Napoli degli anni ottanta, Fabietto Schisa è un diciassettenne che vive la propria adolescenza immerso in un’atmosfera frenetica e vivace, tra l’affetto dei suoi cari e la febbrile attesa dell’arrivo di Diego Armando Maradona nella squadra di calcio locale. La sua vita verrà però sconvolta da un grave incidente. Il film uscirà presso cinema selezionati il 24 novembre e su Netflix il 15 dicembre 2021

Tra gli appassionati di cinema esistono due tipi di persone: chi adora la filmografia di Sorrentino e chi, invece, non la sopporta. Che voi facciate parte della prima o della seconda categoria, È stata la mano di Dio vi spiazzerà. Dimenticatevi le frasi ad effetto di Cheyenne in This Must Be the Place e scordatevi le simbologie visive di Youth - La giovinezza o le atmosfere oniriche de La grande bellezza. Nella sua ultima fatica, Sorrentino abbandona quasi totalmente gli stilemi cinematografici che lo hanno reso tra i registi più celebri del panorama internazionale: pur conservando la sua solita maestria comunicativa (sì, chi scrive fa parte della prima categoria di spettatori), il regista partenopeo abbraccia scelte narrative differenti, nuove e più mature. 

Sullo sfondo di una bellissima Napoli degli anni ottanta, Fabietto Schisa (interpretato da un bravissimo Filippo Scotti, qui al suo debutto sul grande schermo) è un diciassettenne che vive la propria adolescenza con analitico distacco ma precoce maturità intellettuale. Immerso in un’atmosfera frenetica e vivace, tra l’affetto dei suoi cari e la febbrile attesa dell’arrivo di Diego Armando Maradona nella squadra di calcio locale, vedrà la sua vita venire sconvolta da un grave incidente.

C’è molto della storia di Sorrentino all’interno di È stata la mano di Dio: dalla perdita improvvisa e precoce dei propri genitori al sogno di entrare nel magico mondo del cinema. Forse anche per questi motivi il film risulta diverso dai precedenti: è innegabile che, in quest'ultimo, l’emotività prevalga sulla tecnica (seppur sempre eccellente), al contrario di quanto accadeva in passato. Quello che scorre sullo schermo è infatti un Sorrentino inedito, forse per la prima volta davvero sincero e, per usare un’espressione del film, per niente “disunito”. 

C’è una battuta precisa che, circa a metà opera, suona come una dichiarazione d’intenti: un prete, probabilmente appartenente al corpo docente del liceo frequentato dal protagonista, chiede a Fabietto se si vuole confessare. Di fatto, È stata la mano di Dio suona come una confessione del regista: una finestra aperta sulla sua storia personale, sulla sua memoria e sui suoi sentimenti. Forse non è un caso, infatti, che gran parte delle inquadrature siano dedicate agli scorci, ai pertugi, ai vicoli che portano verso spazi infiniti.  

Nei suoi film precedenti Sorrentino raccontava di suggestioni, costruendo splendide narrazioni che si dipanavano attraverso ermetici simbolismi interpretabili a seconda della soggettività dello spettatore. La memoria e i ricordi erano il vero motore dell’azione con cui descriveva esistenze senili svuotate di ogni prospettiva futura e, spesso, arenate sui propri rimpianti e rimorsi. Qui, invece, ad essere protagonista è una giovane vita che dovrebbe essere proiettata verso l’avvenire ma che, a causa degli eventi, si trova disorientata e privata di qualsiasi ardore. 

«Ho cercato di raccontare questa storia senza alcun filtro, in un modo semplice. L'unico filtro è l'evocazione del passato, i ricordi e i sentimenti che provavo quando ero ragazzo – ha raccontato il regista –. Per questo film non mi sono preoccupato di un'idea specifica di stile. Ho sentito che sarebbe dovuto emergere in maniera naturale. A dire il vero ho pensato che sarebbe stato molto liberatorio per me fare un film senza uno stile prevalente e mi sono ritrovato ad apprezzare quello che in passato avevo sempre cercato di evitare»: È stata la mano di Dio è, infatti, un film sulla negazione dell’oblio. Un atto di rievocazione, un processo di elaborazione che, poiché vede l’autore parlare in prima persona attraverso lo sguardo attento del suo alter-ego Fabietto, coinvolge lo spettatore sin dalla prima scena: sarà infatti impossibile non condividere le emozioni del protagonista, raccogliendone le risate ma anche – e soprattutto – il dolore, perché di dolore ce n'è davvero tanto.  

Il film risulta diviso in due parti separate ma perfettamente complementari: se durante la prima ora lo spettatore riderà (e pure molto), nella seconda sarà pervaso dalla malinconia. Una dicotomia interessante che sembra in parte richiamare il monologo finale di Jep Gambardella ne La grande bellezza: «Finisce sempre così: con la morte. Prima, però, c’è stata la vita». Il dualismo tra vita e morte viene esposto attraverso una carrellata dei temi da sempre affrontati nella filmografia di Sorrentino: la solitudine, il ricordo, la memoria, l’introspezione e l’educazione sentimentale vengono qui analizzati in modo più classico e lineare rispetto alle precedenti produzioni, rendendo lo svolgimento della vicenda meno ermetico ma più accessibile e, di conseguenza, universale. Per tutti questi motivi chi solitamente non apprezzava l’autore resterà piacevolmente sorpreso e, allo stesso modo, chi lo ammirava avrà occasione di (ri)scoprirlo. 

Un discorso a parte meriterebbe inoltre la spiritualità simboleggiata dal Monaciello, figura fiabesca del folclore napoletano, e da Diego Armando Maradona, la cui presenza aleggia su tutta la vicenda assurgendo perfino al ruolo di espressione della Divina Provvidenza. Le due figure risultano a tratti speculari e, non a caso, saranno le protagoniste delle uniche scene davvero surreali – quelle cui Sorrentino ci ha abituati – che aprono e chiudono il racconto. 

È stata la mano di Dio non è solo un film ma una poesia visiva che risulta coinvolgente ed emozionante grazie a una scrittura registica impeccabile e a un cast corale magistrale che conta, oltre al già citato Filippo Scotti, anche Toni Servillo (qui alla sesta collaborazione con il regista), Teresa Saponangelo, Marlon Joubert, Luisa Ranieri, Renato Carpentieri Massimiliano Gallo e Betti Pedrazzi. Si segnala inoltre la brillante partecipazione dell’attore veneziano Alessandro Bressanello. Ottima anche la fotografia firmata da Daria D’Antonio. In conclusione: forse non è del tutto corretto affermare che È stata la mano di Dio è un capolavoro ma probabilmente è un film che si avvicina di molto all’eccellenza.

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