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Martedì, 30 Aprile 2024
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«È importante saper trattare le città come organismi viventi»: intervista alla scrittrice Chiara Valerio

Tra le figure più importanti del panorama editoriale italiano, Chiara Valerio ha recentemente pubblicato il pamphlet "La tecnologia è religione" (Einaudi, 2023), nel quale indaga il rapporto tra l'essere umano e le macchine, riflettendo sulle cause che hanno allontanato la tecnologia dalla scienza, trasformandola in una vera e propria nuova fede. Originaria di Scauri, vive e lavora a Venezia

Chiara Valerio è una delle figure più importanti del panorama editoriale italiano. Matematica, scrittrice, traduttrice, conduttrice radiofonica e editor, nasce nel 1978 a Scauri. Nel 2004 consegue il dottorato in Matematica all'Università degli Studi di Napoli Federico II con una tesi dal titolo Analisi del comportamento di un neurone naturale affetto da refrattarietà aleatoria: approccio teorico, risultati numerici, simulazioni e ipotesi.

Con all'attivo dodici testi, tra narrativa e saggistica e teatro, ha recentemente pubblicato il pamphlet La tecnologia è religione (Einaudi, 2023), nel quale indaga il rapporto tra l'essere umano e le macchine, riflettendo sulle cause che hanno allontanato la tecnologia dalla scienza, trasformandola in una vera e propria nuova fede. Quando la incontriamo in un locale in Campo Santa Margherita, la conversazione parte proprio dalla sua nuova opera.

Dottoressa Valerio, iniziamo dal titolo: perché “La tecnologia è religione”?

Partiamo dalla cibernetica: questa disciplina nasce dalle intenzioni di Norbert Wiener, matematico e statistico statunitense, noto per le ricerche nel campo delle probabilità. Nel suo testo God & Golem, Inc, Dio e la figura mitologica del Golem discute circa le interazioni tra macchina e divinità e le loro possibili sovrapposizioni. Sono partita da qui e ho pensato che quella “e” congiunzione del titolo nel saggio di Wiener forse, oggi, potrebbe essere riletta come verbo: essendoci disabituati a riconoscere e segnare i rapporti di causa-effetto, tendiamo a pensare che tutto ciò che ci accada intorno abbia in qualche modo una radice magica o religiosa. 

Che differenza c'è tra danzare per far piovere e schiacciare un tasto per illuminare uno schermo?

Lei nel suo libro parla della funzione della tecnologia sulla memoria. Quant’è cambiato oggi il modo di rivivere i nostri ricordi?

La gestione della memoria ha sempre a che fare con un’intenzione: oggi la nostra memoria non è più gestita e riorganizzata propriamente da noi perché possediamo dispositivi che ci fanno rivivere i nostri ricordi in maniera curatoriale. Lo smartphone, proprio come un curatore d’arte, ci mostra automaticamente i luoghi dove siamo stati felici.

E spesso ci ricorda anche eventi che vogliamo dimenticare ma che rimangono nei nostri dispositivi sotto forma di fotografie, messaggi, video. Esiste un consumo della memoria, quindi?

Sì, perché il consumismo riguarda quella che chiamiamo “comunicazione”, che è già una forma di consumismo semantico. Questo è il punto. La questione della memoria è centrale nel rapporto fra tecnologia e religione e, più in generale, nel nostro personale rapporto con le tecnologie perché siamo portati a credere che la totale automazione conduca a non dover – o a non poter – decidere più niente, la verità è però che stiamo appaltando la memoria ai dispositivi.

La religione si interessa della salvezza dell'anima nei cieli e la tecnologia della conservazione dei dati nel cloud.

Lei pensa che, in futuro, le macchine potranno sostituire gli esseri umani?

È la questione affrontata dal matematico e crittografo britannico Alan Turing nel suo saggio del 1950 intitolato Macchine calcolatrici e intelligenza. Lì Turing spiegava come la domanda «Le macchine possono pensare?» fosse intrinsecamente  sbagliata. L’interrogativo corretto sarebbe: «Sai riconoscere se stai parlando con una macchina o con un essere umano?». Invece di chiederci se, in futuro, le macchine potrebbero sostituire gli esseri umani, bisognerebbe ribaltare la questione e domandarci invece se avremo ancora l’esigenza emotiva di distinguere tra ciò che è macchina e ciò che macchina non è.

Proprio a questo proposito, mi viene in mente come recentemente alcune immagini create con l’intelligenza artificiale siano state date per vere. Si pensi, ad esempio, all’immagine dell’arresto di Donald Trump, realizzata artificialmente, che è stata riportata perfino da importanti giornali e notiziari e, quindi, creduta come reale. Ad aprile, inoltre, il fotografo tedesco Boris Eldagsen vinse il Sony World Photography Awards con un’immagine prodotta dall’intelligenza artificiale, rifiutando infine il premio e dichiarando di aver partecipato al concorso per aprire un dibattito sul tema. Mi chiedo allora quanto sia diventato labile il confine tra la realtà e l’alterazione della stessa.

Lo era già, basti pensare che i fotografi e i reporter – ma anche noi stessi, volendo – offrono da sempre una interpretazione di quello che è il reale perché decidono già prima di scattare cosa inquadrare e cosa, invece, lasciare fuori dall’obiettivo. Gli esseri umani, nella loro quotidianità, alterano già la realtà. Quindi ritorniamo al problema posto da Turing: nel momento in cui non saremo più in grado di distinguere tra le alterazioni umani e quelle artificiali, avrà davvero senso fare la distinzione tra uomo e macchina? Siamo sulla soglia di un mondo nuovo, in cui la tecnologia è abbastanza pervasiva da riuscire a mimare la realtà. 

Lei è originaria di Scauri ma ha un rapporto molto stretto con Venezia perché ci abita ormai da anni e, sempre qui, lavora come editor per la casa editrice Marsilio. Come vive la città lagunare?

Sono innamorata di Venezia perché è una città che consente un rapporto umano con la dimensione temporale e spaziale, basti pensare che ci si incontra senza darsi alcun appuntamento. 

La prima volta che ci siamo incontrare fu durante l’installazione di un contatore presso la Libreria Usata by Marco Polo in campo Santa Margherita. L’iniziativa mirava a far vedere come il numero dei posti letto turistici fosse di poco inferiore a quello degli abitanti, una problematica di cui si parla – giustamente – sempre più spesso. Cosa ne pensa?

Leggere – contare – che i posti letto abitativi equivalgono quasi a quelli turistici è un bel po’ spaventoso. Io penso che questa città abbia una naturale vocazione all’educazione, alla formazione e all’arte, proprio perché è una città che si fonda sugli incontri e sugli incroci di esseri umani. Venezia è una specie di diorama del Mar Mediterraneo, un crocevia di esistenze, ed è sempre stata così. Venezia ti sa accogliere se la sai guardare al di fuori di un’ottica di consunzione. Io non vorrei che finisse consumata. Le città sono strutturazioni naturalizzate della vita collettiva. L’importante è saperle trattare come fossero organismi viventi.

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