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Cronaca Portogruaro

Fatture false e fondi neri, l'accordo criminale tra italiani e cinesi scoperto "per caso"

L'indagine è partita dagli accertamenti su Gaiatto, oggi la guardia di finanza ha arrestato quattro imprenditori della zona di Portogruaro accusati di aver messo in piedi un sofisticato sistema di riciclaggio

Un reticolo di società di comodo permetteva ad alcuni imprenditori italiani di trasferire denaro all'estero, pagando fatture false e ricevendo poi soldi contanti in nero che utilizzavano per altri scopi, come per il pagamento (sempre in nero) dei loro lavoratori. Dopo le indagini della guardia di finanza, coordinate dal procuratore di Pordenone Raffaele Tito e dal sostituto procuratore Monica Carraturo, tre persone sono finite in carcere. Si tratta di S.P., 64enne di Fossalta di Portogruaro, M.B., residente a Bratislava ma domiciliato a San Michele al Tagliamento e M.B. di Portogruaro. Una quarta persona, R.B., 67enne di Cessalto, è ai domiciliari per il reato di riciclaggio, mentre gli altri tre "compari" sono accusati anche di emissione di fatture false.

Le indagini degli inquirenti sono cominciate per una fatalità mentre stavano approfondendo la vicenda di Fabio Gaiatto, il finto broker di Portogruaro condannato nel 2019 a 15 anni di carcere. Il 64enne S.P. era investitore di Gaiatto, il quale gli doveva una somma vicina agli 800mila euro, e allo stesso tempo gestiva il suo giro di frodi fiscali. Quando i militari della Finanza si sono presentati a casa sua S.P. ha cercato, senza riuscirci, di disfarsi di un hard disk e di uno smartphone all'interno dei quali erano contenuti dati e informazioni che hanno permesso agli investigatori di ricostruire questo nuovo giro di affari: un gruppo che riciclava denaro con l'aiuto della criminalità organizzata cinese.

Il modus operandi messo in piedi dal quartetto era sofisticato. I criminali disponevano di società all'estero (intestate a prestanome, le teste di legno da cui prende il nome l'operazione "Wooden Heads"), soprattutto in Bulgaria e Slovacchia, che avevano lo scopo di emettere fatture per operazioni inesistenti nel settore del commercio di rottami di ferro e pallet in legno. La prima fase prevedeva quindi l'emissione delle fatture, cui seguiva il pagamento con bonifico alle società cartiere. Queste, in una seconda fase, inviavano il capitale ai conti correnti di alcuni fiancheggiatori dell'organizzazione presso un istituto di credito con sede a Shangai. 

Il corretto accredito era successivamente comunicato ai referenti in Italia dell'organizzazione, che si recavano in luoghi sicuri per incassare i soldi in contanti da alcuni membri della criminalità cinese trapiantata in provincia di Padova. Alla cifra, naturalmente, veniva trattenuta una percentuale (tra l'1 e il 3%) per il servizio illecito. Il denaro a quel punto veniva distribuito agli imprenditori italiani che avevano ricevuto e pagato le fatture delle società cartiere, anche in questo caso con le trattenute di una percentuale per il pagamento del servizio ricevuto.

Con questo meccanismo, tutti ci guadagnavano: chi gestiva le cartiere aveva una percentuale dei soldi ripuliti come guadagno, chi pagava le fatture aveva la possibilità di portarsi costi fasulli in contabilità e abbattere il reddito, garantendosi un "castelletto" di denaro contante funzionale per altri affari, mentre la criminalità cinese riusciva a ripulire denaro contante, facendolo arrivare alla madre patria senza di fatto movimentarlo. Come spiegato dal comandante della guardia di finanza di Venezia Giovanni Avitabile «questi flussi di denaro si muovono, attuando in parte delle forme di compensazione legale». Per questo motivo l'hard disk e lo smartphone recuperati un po' per caso si sono rivelati fondamentali per ricostruire un giro d'affari superiore ai 60 milioni di euro.

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